Riflessioni&Proposte

lunedì 12 aprile 2010

giovedì 28 gennaio 2010

Gli effetti del disegno di legge 1880 sul processo penale

a cura di Claudio Nunziata
(tabelle espositive allegate)

Tenterò di fare chiarezza ricorrendo ai numeri nel tentativo di correggere le tante informazioni fuorvianti, sbagliate, approssimative e superficiali che si sono diffuse sull’argomento.
In parte esse sono state determinate da una obiettiva complessità del problema, ma in parte sono state indotte da alcune artificiose informazioni: la denominazione di “processo breve” è deliberatamente fuorviante, perché bisognerebbe piuttosto parlarsi di “rinunzia al processo”. Fuorviante anche la indicazione di una ricaduta sull’1% dei processi pendenti che è frutto o di ignoranza o di deliberata mistificazione. Le brillanti strutture del Ministero della Giustizia hanno fatto un calcolo di molto inferiore alla realtà e poi lo hanno rapportato percentualmente al numero di tutti i procedimenti penali pendenti, che sono circa 3.200.000.
Ma 2.500.000 di questi sono pendenti in fase di indagini e ad essi non è destinata ad applicarsi la nuova normativa. Fare riferimento ad essi è una operazione metodologicamente scorretta, poiché l’istituto della estinzione processuale è destinato solo al giudizio ed avrà presumibilmente una ricaduta a regime del 33%. Ed in particolare una ricaduta rivolta a scaricarsi direttamente sui processi e sui riti più complessi, vale a dire sui processi con numerosi imputati, quelli con numerose imputazioni e su quelli provenienti da udienza preliminare.
A Bologna, come in altre sedi, la analisi concreta aveva evidenziato una ricaduta nella misura del 71% di tutti i processi provenienti da udienza preliminare contro il 27% per i processi provenienti da rito immediato e del 17% per le citazioni dirette a giudizio. Quindi una ricaduta che va ha incidere su processi di maggiore delicatezza, per i quali il legislatore non ha previsto l’applicabilità di riti più sbrigativi e l’imputato ritiene di non affidarsi al giudizio abbreviato.
Esistono dei principi di etica statistica pubblicati nel 2007 da Eurostat che impongono la chiarezza delle fonti, la indicazione dei metodi utilizzati nelle rilevazioni e delle sequenze operative eseguite durante le rilevazioni stesse, principi che rendono doveroso descrivere e documentare il processo produttivo del dato statistico. Ad essi il Ministero della Giustizia non ha ritenuto di adeguarsi, peraltro non rendendo neanche pubblici i dati di partenza , manifestando con ciò la mancanza di un approccio laico rispetto al disegno di legge, solo formalmente di iniziativa parlamentare, distacco che sarebbe stato tanto più doveroso in quanto influiva direttamente sugli interessi del Presidente del Consiglio.
Vale la pena osservare che è assolutamente fuorviante il riferimento che viene spesso fatto a soglie di durata che sarebbero anche di 10 anni, dal momento che queste sono previste per meno dell’1% dei processi, mentre per il 75% la soglia indicata è di 6 anni e mezzo e per il 24% di 7 anni e mezzo. Senza considerare che potrebbe vedersi estinto anche un processo che non abbia rispettato la prima soglia e sia, per questo, relativo a un fatto commesso appena 3 anni e mezzo prima, e si verificherà così il paradosso di una prescrizione sostanziale che sopravanza la estinzione processuale.
Va inoltre evidenziato che praticamente la durata della prescrizione per i reati con pena inferiore ai 10 anni è equivalente alla somma dei tempi di estinzione del processo previsti dalla prima fascia del d.l. 1880, se si tiene conto anche della fase delle indagini, sicché il nuovo istituto processuale proposto costituisce una duplicazione priva di ragionevolezza e del tutto superflua. Ha il solo scopo di recuperare alla estinzione i processi che siano sfuggiti alla prescrizione.
Gli effetti di questo disegno di legge, in termini quantitativi, si potrebbero ritenere non tanto disastrosi, ma solo in quanto il disastro sia stato già compiuto allorché nel 2006 furono dimezzati termini della prescrizione, i cui effetti non si sono ancora manifestati.
Il d.l. 1880 rappresenta, difatti, il completamento della demolizione della funzione del processo penale che andrà ad aggiungersi agli effetti della legge ex-Cirielli, che dovrebbero esaurirsi completamente proprio entro il 2013 (2006+7,5 anni = metà del 2013), quando andrà anche a regime l’istituto della estinzione processuale, senza però che si verifichi una staffetta tra i due istituti, ma con un loro affiancamento che determinerà un progressivo raddoppio dei casi di estinzione. Attualmente i casi di estinzione (per prescrizione) sono poco più di un terzo dei processi che vanno a sentenza, domani anche con gli effetti della ex-Cirielli potrebbero aumentare sino a due terzi, una dimensione anomala per uno stato di diritto.
Diversamente per la norma transitoria per la quale si prevede una ricaduta solo su 11.261 processi. L’unica sua funzione è, dunque, quella di recuperare – per effetto dei diversi meccanismi di applicazione - qualche processo che sia sfuggito alla prescrizione. Dunque, ci si interroga sulla necessità di un intervento di tale natura. Ma sappiamo quale è la risposta. E’ una risposta inquietante, la rinunzia alla applicazione del principio di responsabilità nei confronti di una parte della classe dirigente, che porta diritto alla fine della democrazia.
Se non vi saranno interventi strutturali, nel corso dei prossimi anni, le sopravvenienze e le definizioni saranno prevedibilmente della stessa portata, se non addirittura destinate ad aggravarsi. I giudici e gli uffici già lavorano al limite del sopportabile e non potranno migliorare gli standard di lavoro. Vi potrà essere qualche piccolo miglioramento di facciata nei primi mesi, ma la rigidità delle disfunzioni riporterà tutto come prima.
Prima di passare alla analisi concreta, occorre premettere che i dati di cui dispongo sono prevalentemente riferiti alla data del 31.12.2007, che comunque si tratta di dati che tendenzialmente stabili nel tempo che hanno ricevuto scostamenti pressoché insignificanti negli ultimi anni. Il metodo di calcolo che seguirò ovviamente consente solo una stima approssimativa.
Per quanto riguarda la determinazione della ricorrenza dei reati, ho rilevato qualche anno fa - su una base di 11.000 processi pendenti presso la Corte di Appello di Bologna - che i reati con pena inferiore ai 10 anni sono il 75% del totale dei reati pendenti, quelli con pena maggiore il 25%. Una recente analisi eseguita sui processi pendenti presso l’ufficio GIP/GUP di Bologna ha evidenziato addirittura una percentuale dell’87% per i reati della prima categoria. Si ritiene, dunque, che possa farsi riferimento ad una media tra i due valori e riportare la percentuale di riferimento al 75% in considerazione del pur scarso numero di delitti esclusi dalla applicazione dell’indulto (e di conseguenza della norma transitoria) nonché quelli di criminalità organizzata, che per la loro irrilevanza numerica non considero affatto in questa analisi. Occorre inoltre tener presente che i dati di durata dei tribunali sono rapportati alla data di iscrizione del processo sul registro generale, mentre il disegno di legge fa riferimento alla data di formulazione dell’imputazione, che presuppone – almeno per il passato allorché non si faceva attenzione a questo dato – almeno un anno di attesa dopo l’esercizio dell’azione penale. Per i futuri effetti a regime si può stimare una media di 6 mesi, nella ipotesi che vengano strutturati servizi adeguati presso le procure.

Scansione temporale degli effetti applicativi del d.l. 1880

Il disegno di legge presuppone tre differenti archi temporali di effetti. La norma transitoria per i processi relativi a fatti anteriori al 2.5.2006 ed una applicazione a regime. In mezzo vi è un gruppo di processi composito tra i quali i processi introitati tra il 2.5.2006 e l’entrata in vigore della legge.
Difatti prevede la sua applicazione solo per il futuro, fatta eccezione per gli effetti della norma transitoria che si applica solo per la fase di giudizio del Tribunale ordinario.
La formulazione del secondo comma dell’art. 9 è: “Salvo quanto previsto al comma 1 [per i processi per reati ante 2/5/2006], le disposizioni di cui all’articolo 531-bis del codice di procedura penale non si applicano ai processi in corso alla data di entrata in vigore della presente legge”. Si tratta di stabilire cosa si intenda per processi in corso, dizione che sembrerebbe comprendere tutti i processi in qualsiasi fase si trovino (non si dice “processi pendenti in ciascuna fase”), sicché solo i nuovi processi in cui la formulazione dell’imputazione sia stata formulata in data successiva alla entrata in vigore del d.l. 1880, sarebbero esposti alla estinzione processuale, sicché – se non ho mal compreso - rimangono privi di questa copertura tutti i processi di prima fascia dal Tribunale introitati con data del fatto successiva al 2.5.2006 sino alla entrata in vigore della legge, nonché i processi pendenti con pena massima superiore ai 10 anni, in fase di appello e di Cassazione, anche con data anteriore. Grosso modo quattro-sette anni di pendenza da metà 2006 sino a metà 2013. L’entrata in vigore scatta con la pubblicazione della legge, salvo a manifestarsi dopo i primi tre anni l’effetto estintivo.

Disciplina transitoria

Essa è applicabile solo per i processi a giudizio dinanzi al Tribunale ordinario con data del fatto anteriore al 2.5.2006 e con pene massime inferiori ai 10 anni. Nei 166 Tribunali la media della pendenza nazionale al 31.12.2005 era di 373.880 processi cui si sono aggiunti quelli sopravvenuti da gennaio ad aprile 2006 (pari a 113.753) e, tenuto conto della attesa media per circa un anno in fase di indagini, i processi arrivati ancora nel corso di un anno successivo sino ad aprile 2007 (pari a 340.000). Si può dunque calcolare che il totale dei processi pendenti con data stimata anteriore al 2.5.2006 era di 827.633. Si stima, inoltre, che anche dopo il 2.5.2007 sino al 2.5.2008 siano ancora pervenuti a giudizio processi con data del fatto anteriore al 2.5.2006. Ma dal momento che il dato statistico di durata medio nazionale appiattisce situazioni che sono in realtà diversificate, si concentra l’analisi su 61 tribunali in sofferenza - nei quali si è concentrato il 60% del totale delle pendenze - con indice di durata media per ciascuno di essi superiore a due anni . Si suddividono tali tribunali in tre gruppi a seconda della durata media di ciascun gruppo
• 11 tribunali e varie sedi distaccate con durata di trattazione media per ciascuno di essi superiore a 2 anni e mezzo, per un totale di durata – compresa la attesa in fase di indagini - di tre anni e mezzo. In essi si concentrava una pendenza arretrata pari a 60.534 processi , che si stima fosse interamente con data del fatto anteriore al 2.5.2006,
• 6 tribunali e varie sedi distaccate con durata media di trattazione per ciascuno di essi tra 2 e 2,5 anni. In essi si concentrava una pendenza complessiva di 35.809 processi Considerata la durata di attesa in fase di indagini di un anno, si stima che la data del fatto, per metà di tali processi, pari a 17.904, risalisse a prima del 2.5.2006,
• vi sono poi tutti altri 44 tribunali in sofferenza con durata di trattazione media inferiore ai due anni e superiore a 1 e con una pendenza complessiva di altri 118.386 processi, per i quali è possibile stimare una aliquota del 20% riferibile a data anteriore al 2.5.2006, pari a 23.676 processi.
Si escludono i processi pendenti in abbreviato perché prevalentemente relativi a reati con pena >10 anni e per la minore durata del rito.
I processi per fatti anteriori al 2.5.2006 da smaltire da parte dei Tribunali erano dunque 827.633 + 60.534+17.904+23.676 per un totale di 929.747.
Esaminiamo ora quale è stata e sarà la capacità complessiva di smaltimento di processi al 31.3.2010, possibile data di entrata in vigore del D.L.1180:
205.204 pari a 2/3 del 2006 + 336.541 nel 2007 + 340.000 nel 2008 + 340.000 nel 2009+85.000 pari a ¼ del 2010 , per un totale di 1.306.745, dal quale va detratto un 30% (392.023) destinato alla trattazione dei nuovi processi a carico di detenuti con un risultato di 914.722 processi. Ovviamente alla data odierna buona parte di questi processi sono stati già definiti. Ne residuerà un numero quasi irrilevante: 929.747 pendenti – 914.722 definiti = 15.015 .
Di questi residui processi con probabile data del fatto anteriore al 2.5.2006 potrebbero essere esposti alla estinzione, in ragione del titolo di reato, solo il 75%, vale a dire 11.261 processi. Considerata la ripartizione tra 166 tribunali, i processi destinati alla estinzione per effetto della norma transitoria potrebbero essere mediamente una settantina per ciascun tribunale. Si tratta di una piccola aliquota di processi sfuggiti alla prescrizione distribuiti ovviamente in misura maggiore nei 61 tribunali in sofferenza.


L’effetto della applicazione di questa disposizione “a regime” . Gli effetti sui processi di Tribunale

Si procede alla analisi disagreggata riferita ai tribunali in sofferenza con durata > 2 anni si perviene alla identificazione di 96.343 processi con durata superiore ai 2,5 anni:
• 11 tribunali e varie sedi distaccate con durata di trattazione media per ciascuno di essi superiore a 2 anni e mezzo, per un totale di durata – cui si aggiungono 4 mesi per gli adempimenti in fase di indagini - di due anni ed otto mesi. In essi si concentrava una pendenza arretrata pari a 60.534 processi , da cui viene detratto 1/6 in considerazione della differenza rispetto alla soglia di tre anni, con il risultato di 50.445;
• 6 tribunali e varie sedi distaccate con durata media di trattazione per ciascuno di essi tra 2 e 2,5 anni, per un totale di durata – cui si aggiungono 4 mesi per gli adempimenti in fase di indagini - di 2 anni e 7 mesi. In essi si concentra una pendenza complessiva di 35.809 processi, da cui viene detratto un terzo in considerazione della differenza rispetto alla soglia di tre anni, con il risultato di 23.873.
Il totale è di 74.318. Considerato che sono destinati alla estinzione il 75%, dei reati, viene definito in 55.738 il numero di processi candidati alla estinzione in fase di giudizio ordinario, che rappresenta il 14% delle pendenze complessive dei 166 tribunali pari a 396.000 processi .
Il problema è che questi 55.738 processi estinguibili non sono destinati a spalmarsi in modo distribuito su tutte le tipologie di rito, bensì a concentrarsi quasi completamente sui processi provenienti da udienza preliminare e su tutti quei processi che per la loro complessità e per il numero di imputati o di imputazioni (e di conseguenti adempimenti formali) hanno un iter di celebrazione più complesso.
La cifra di 55.738 assorbe ovviamente anche tutti i processi che sarebbero altrimenti destinati alla prescrizione, ma è due volte il numero dei processi che ogni anno sino al 2008 i tribunali hanno dichiarato estinti con sentenza per prescrizione.

Gli effetti sull’appello

I processi pendenti in appello al 31.12.2007 erano 156.362 e si tratta di un dato tendenzialmente stabile. La capacità di definizione delle Corti è stata negli ultimi anni mediamente di 77.000 processi all’anno. In 14 Corti su 29, con una pendenza di 92.266 processi pari al 59% della pendenza totale, i tempi di celebrazione sono di gran lunga superiori ai due anni, sicché le relative pendenze sono tutte a rischio estinzione perché i processi non possono essere celebrati entro il limite previsto dei due anni.
Se è anche vero che potrebbe essere possibile una proroga, questa viene considerata comunque assorbita nel tempo di trasferimento del fascicolo tra il primo ed il secondo grado, che non è inferiore a tre mesi.
Dunque, circa 92.266 processi di appello sarebbero destinati all’estinzione, essendo la soglia di 2 anni eguale per processi con pena inferiore o superiore ai 10 anni. Il ché significa che i processi che si estinguerebbero ogni anno in appello sarebbero di nove volte il numero attuale delle prescrizioni sinora dichiarate nella stessa fase (il 31.12.2008 il numero delle prescrizioni in appello era di 10.311).
E non è dire che ciò sia frutto di un minore rendimento delle relative Corti, dal momento che i magistrati di 9 di queste 14 Corti hanno prodotto un numero di sentenze procapite prossimo o superiore alla media nazionale.

Gli effetti sul giudizio di Cassazione

La durata media di un ricorso in cassazione è andata progressivamente aumentando dai 6 mesi del 1994 ai 7 mesi del 2000 ai 9 mesi (281 gg.) del 2007, ma questo tempo viene misurato dal momento dell’arrivo del processo in cassazione, senza tener conto che generalmente tra la decisione dell’appello e la trasmissione in cassazione passano almeno 4 mesi, lasso di tempo che dipende da tutti gli adempimenti di notifica, cioè dalla volontà o meno dell’imputato, che avrà tutto l’interesse a restare contumace, di farsi trovare, e dall’efficienza dei relativi servizi. In ogni modo la soglia di 18 mesi per la fase appare egualmente congrua, salvo che per una sezione della cassazione.
Un rischio di sforamento esiste per la sez. V della cassazione che ha una media di durata di trattazione dei ricorsi penali di 17 mesi ai quali vanno aggiunti i quattro mesi necessari alle notifiche della sentenza di appello ed al trasferimento del fascicolo. La pendenza della sezione quinta è di circa un decimo rispetto alla pendenza totale della corte, e, quindi, sono circa 3.321 i processi (1/10 di 33.212) che vanno ad aggiungersi ai casi di previste estinzione.


Il totale delle estinzioni a regime

Dunque, dal momento di entrata in vigore di questo disegno di legge, nella attuale stesura, gli effetti in termini di estinzione dei processi saranno i seguenti (senza considerare i processi di criminalità organizzata che sono un numero irrisorio, quelli in fase di giudizio abbreviato e del giudice di pace e i rischi sui tempi di trasferimento al termine delle indagini) :
55.738 processi di Tribunale ordinario
92.266 processi di appello
3.321 processi di cassazione
151.325 totale processi esposti a rischio estinzione ogni anno

Si tratta dell’8% del totale dei procedimenti pendenti in fase di indagini e di giudizio (rapportati ai dati del 2007 che sono piuttosto stabili nel tempo) e del 30% rispetto a tutti i processi pendenti a giudizio. La percentuale supera il 70% se riferita ai soli processi destinati a passare per la fase dell’udienza preliminare.

Il rischio in fase di indagini

Nella attuale situazione delle prescrizioni dichiarate il 78% viene dichiarata con provvedimento di archiviazione. Nel 2008 sono stati dichiarati estinti per prescrizione dai tribunali e dalle corti di appello 35.237 processi Gli uffici del PM per altri 118.000 procedimenti hanno chiesto la declaratoria di archiviazione o di nlp al GIP per prescrizione, per un totale di prescrizioni dichiarate di 154.332. Il 21 gennaio scorso alla camera il Ministro della Giustizia ha indicato in 170.000 le prescrizioni complessivamente dichiarate nel 2009. Sono gli effetti della ex Cirielli che cominciano a farsi sentire. Nel 1 1990 erano 17.452, nel 1996 è iniziata l’esplosione con 56.846, poi nel 1999 e nel 2002 136.545. Riflettete sulle date per comprendere gli effetti delle riforme introdotte in questo arco di tempo.
Un autonomo rischio con possibili effetti di dimensioni enormi discende dalla norma che prevede il caso in cui il PM non riesca ad esercitare l’azione penale entro tre mesi dal termine delle indagini, inadempienza direttamente dipendente dal malfunzionamento dei servizi la cui responsabilità fa capo all’esecutivo. Il mal funzionamento dei servizi degli uffici di Procura, con la anticipazione della decorrenza a quo, è destinato, dunque, ad influire direttamente sulla sanzione dell’estinzione processuale e a depotenziare il principio di obbligatorietà dell’azione penale. Si spera che prima che la eventuale normativa 1880 vada a regime, i relativi servizi vengano messi a punto.
Attualmente questa fase processuale di passaggio dei processi dalla Procura al Tribunale è letteralmente in crisi. Ad esempio a Bologna da ben oltre tre mesi 10.000 processi, già istruiti e pronti per il giudizio, sono in giacenza presso la Procura, di cui 8000 in attesa di ricevere dal Tribunale la data di fissazione dell’udienza e 2000 con data per i quali la Procura non è riuscita a far fare ancora le notifiche. Per comprendere la dimensione del fenomeno basti osservare che si tratta di circa un quarto della pendenza del tribunale di Bologna il 31.12.2007.
Una pendenza occulta che purtroppo pesa su molte altre realtà e nasconde la reale pendenza dei tribunali. Si tratta dell’effetto della irrazionale regola secondo la quale è l’ufficio di procura o del GUP a determinare il calendario del Tribunale, impedendone ogni flessibilità di adattamento che possa consentire di migliorarne le performances.

Il vulnus allo stato di diritto

Questo disegno di legge prevede l’estinzione del processo, vale a dire la morte del processo. La formula utilizzata collide con il principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale (108 Cost) che è incompatibile con qualsiasi strumento di rinunzia alla applicazione del diritto penale. E, difatti, l’unica eccezione era prevista dalla stessa Costituzione per i parlamentari con l’autorizzazione a procedere ed il Parlamento decise di abolirla. Dunque altre analoghe forme di estinzione del processo potrebbero essere stabilite solo con legge costituzionale. L’applicazione inderogabile del diritto penale è connaturata alla stessa essenza del sistema costituzionale attuale.
La dottrina penale prevede forme di estinzione non già del processo bensì del reato ed in particolare la prescrizione, l’amnistia, la remissione di querela. E’ solo in questo ambito che potrebbe essere inquadrato il nuovo istituto.
E difatti esso rivela la sua natura sostanziale, allorché si constata che le diverse ipotesi applicative sono rapportate alla entità della prescrizione, sicché la sua applicazione è riferibile ad ogni singolo reato, alle eventuale condizioni soggettive che consentano ad un singolo imputato di beneficiare di una attenuante o di subire aggravante e non già al processo nel suo complesso. Potrà cioè influire anche solo in parte nei confronti di alcuni imputati o una parte delle imputazioni, senza involgere il rischio della estinzione dell’intero processo.
Inoltre se la norma transitoria è un istituto sostanziale e si riferisce al passato assume necessariamente la natura di una amnistia. La amnistia richiede in base all’art. 79 Cost. una maggioranza qualificata dei due terzi per essere approvata, con una procedura ancora più rigida di quella prevista per le modifiche costituzionali.
Certamente questa falcidia di processi, dovuta soprattutto alla ex Cirielli – con il conseguente sacrificio in termini di funzionalità dello stato di diritto - potrebbe teoricamente determinare un alleggerimento del sistema e consentire a regime di svuotare gli archivi degli uffici maggiormente gravati. Ma in pratica significherà graziare – al di fuori dei meccanismi consentiti dalla Costituzione – la metà di una intera generazione criminale.
E se non verranno rimosse tutte le cause che impediscono il miglioramento del rendimento degli uffici, si riformeranno di nuovo gli arretrati e sarà di nuovo da capo.
Ma esistono anche altre incongruenze incompatibili con regole generali del sistema penale:
• Un processo nel quale vi sia stata una doppia sentenza di condanna conforme in primo e secondo grado, si estinguerà perché non si è stata celebrata tempestivamente la fase di cassazione?
• E cosa succederà se in un processo fissato al margine del tempo previsto, improvvisamente muoia o si ammali uno dei membri del collegio? Il processo si estinguerà senza rimedio. Sarà un incentivo – in determinate situazioni – anche a far fuori o a spingere per le scale qualche giudice, in modo da determinare l’automatica estinzione anche del processo. Forse per i processi di mafia e per tutti quei processi che coinvolgono ingenti conseguenze economiche o politiche, questa diventerà la regola;
• Ed in tale situazione di inadempienza da parte dello Stato, perché la sanzione deve ricadere sulle parti offese e sul corpo sociale? Peraltro il fatto stesso che sia prevista come sanzione il risarcimento per il ritardo della sentenza, dovrebbe portare ad escludere una sanzione destinata a ricadere sul processo.
I tempi di durata del processo dipendono solo per il 9% dalla durata del giudizio, per il 77% da tempi di attesa, per il 14% da tempi di notifiche.
Sono tutti fattori sostanzialmente estranei alla giurisdizione quelli che costituiscono causa strutturale influente sulla durata dei processi e solo a causa di essi viene determinata l’estinzione del processo. Occorre intervenire su tutte insieme le cause strutturali di disfunzioni. Ma in tale direzione c’è il vuoto assoluto di intervento e di iniziativa da parte del Ministero della Giustizia.
I fattori esterni incidenti sulla durata non possono essere catapultati tutti all’interno del processo e tradursi in rischio di sua estinzione.
Un sistema basato su questi sbarramenti non fa che alimentare il tentativo degli imputati di lucrare l’estinzione e quindi di lavorare contro la rapida conclusione dei processi. L’ulteriore conseguenza sarà anche quella di spingere i dirigenti degli uffici a fare maggior numero, fissando ancora più processi monocratici (96,2%) di quelli collegiali (3,8%), quelli con meno imputati e meno complessi. Almeno fin ché non verranno introdotti nella misurazione della funzionalità indicatori più affidabili.
La durata media superiore alla media nazionale da parte di 61 Tribunali su 166 e di 14 Corti di Appello su 29 e di una sezione della Cassazione dipende solo in minima parte dalla ridotta capacità di lavoro dei singoli, dipende soprattutto dalla struttura del processo, dalla mancanza di intervento sul sistema delle impugnazioni , poi dalle carenze di organico di magistrati e di personale, dal non sempre razionale rapporto con la popolazione residente e la quantità degli affari da trattare, da una distribuzione degli uffici sul territorio non più funzionale e correlata alle esigenze effettive, dalla esistenza di ben 88 uffici giudiziari con meno di 20 magistrati, dalla carenza di organizzazione dei servizi e dei mezzi disponibili e dalla non sempre adeguata capacità organizzativa da parte dei dirigenti. In minima parte solo da qualcuno di questi fattori.
La mancanza di riforme adeguate è da ascrivere ad un parlamento che oramai è appiattito sull’esecutivo; le carenze di organico e di mezzi sono totalmente da ascrivere all’esecutivo, mentre per le carenze organizzative è stato introdotto dal governo precedente quel meccanismo di verifica quadriennale delle capacità direttive che può portare al mancato rinnovo dell’incarico ed il CSM ha provveduto negli ultimi mesi a rinnovare gli incarichi direttivi in oltre 400 uffici. Una vera e propria rivoluzione della quale non abbiamo potuto ancora apprezzare gli effetti positivi. Questa è la sanzione acconcia rivolta a risolvere una delle cause della durata eccessiva dei processi.
Ma la responsabilità è da ascrivere anche al ceto accademico che non ha avuto la lucidità di prendere atto di una situazione di inadeguatezza della struttura attuale del processo, da lungo tempo denunziata, ricordo il convegno tenuto da MD nel dicembre 2003 a Sasso Marconi , senza evidenziare che le attuali contraddizioni di un modello semi-accusatorio non possono coniugarsi con il principio di ragionevole durata.
Bisogna, invece, accettare l’idea che il principio della ragionevole durata presuppone anche una rinunzia a determinati istituti processuali. Nulla si è fatto in questo senso: si vogliono allo stesso tempo tutte le garanzie possibili e tempi contenuti, una operazione inconciliabile.
In un sistema di tipo accusatorio la sentenza di appello basata sulla percezione non diretta dei fatti da parte dei giudici non ha alcuna ragione di essere più aderente alla realtà di quella adottata dai giudici di primo grado che hanno acquisito direttamente la prova.
La previsione di estinzione processuale lascia tutto immutato, non ha alcuna possibilità di influire sulla funzionalità degli uffici. Di fronte alla incapacità di risolvere i problemi si decide di far finta che essi svaniscano nel nulla . E’ un rimedio che manifesta una mancanza di cultura di governo di fenomeni complessi. Una inadeguatezza disarmante della quale occorrere essere seriamente preoccupati per gli ulteriori danni che, anche solo per inerzia, può produrre.
Gli effetti perversi che questa normativa tende a determinare sono:
- lasciare intatto lo status quo di scarsa funzionalità del sistema;
- incrementare la corsa alle impugnazioni alla ricerca di una causa di estinzione;
- orientare la giustizia verso la sola celebrazione dei processi a carico di detenuti e della delinquenza di strada;
- incrementare il senso di insicurezza dei cittadini,
- esporre sempre di più i cittadini e le parti offese alla sopraffazione da parte di violenti, truffatori ed approfittatori,
- incrementare sempre di più il senso di irresponsabilità della classe dirigente e quello di impunità dei criminali propensi alla commissione della tipologia di reati che questa normativa tende ad estinguere.

lunedì 16 febbraio 2009

La acquisizione della notizia di reato nel progetto di riforma del cpp

Claudio Nunziata

Attribuendo alla polizia giudiziaria il potere esclusivo di individuare le notizie di reato e scindendo il momento della sua acquisizione della notizia di reato da quello di esercizio dell’azione penale, si svuota di fatto il principio di obbligatorietà di cui all’art. 112 Cost
Innanzitutto perché si circoscrive l’ambito di coloro che possono individuare un reato e poi perché si esclude proprio il PM che è l’organo tecnico individuato dall’ordinamento a questo scopo. Un capovolgimento dello schema disegnato dal cpp del 1988.
A fronte dell’interesse dichiarato ad eliminare spazi di arbitrarietà nella individuazione della notizia di reato, non ci si affida ad una regolamentazione che assicuri principi di obiettività, generalità ed astrattezza, ma ci si limita a spostare questa pretesa arbitrarietà da un organo tecnico, quale è il PM che offre garanzie giurisdizionali, ad un altro organo, la polizia giudiziaria, che queste garanzie non le può offrire. Anzi quelle poche che ha le vengono tolte.
Nella sostanza non viene più assicurata la trasparenza in quella delicata fase di passaggio dalla analisi dei fenomeni criminali alla definizione di un strategia di scandaglio al loro interno. Sarebbe bastato imporre al PM un obbligo di motivazione e di documentazione sul processo di acquisizione della notizia di reato ed automaticamente la previsione di una futuro controllo avrebbe eliminato la possibilità di qualsiasi abuso. Essa è oggi implicita nei criteri di priorità che completano un sistema di controlli sull’operato del PM, perseguito anche mediante gli strumenti dell’accentuazione del vincolo gerarchico tra sostituti e capo della procura e la temporaneità degli uffici direttivi con verifica dei criteri di gestione dopo quattro anni. Sarebbe stato sufficiente quanto meno aspettare gli effetti di questa riforma da poco entrata in vigore ovvero indicare parametri più puntuali di verifica da parte del CSM .
Le norme proposte denunziano invece tutte una sola e maniacale aspirazione: avvilire il ruolo del PM. Esse, però, perseguono anche il risultato diverso, e non dichiarato, di indebolire il meccanismo di repressione dei sistemi criminali e pregiudicano pesantemente le garanzie giurisdizionali del processo penale, con un risultato finale di realizzare il contrario dell’obiettivo che si assume di volere perseguire.
Saremo tutti esposti alle scelte persecutorie dell’esecutivo, dal momento che la loro arbitrarietà viene considerata un atto di discrezionalità politica e come tale insindacabile.
Ed, a prescindere dagli abusi che rimarrebbero impuniti, l’analisi dei fenomeni criminali più complessi e meno appariscenti sarebbe condizionata dagli umori politici, dalle esigenze di assicurarsi consenso politico, da una visione settoriale conseguente anche alla parcellizzazione degli uffici di polizia sul territorio ed alla molteplicità dei corpi di polizia esistenti in Italia.
Si ripercuoterebbe sul PM e su tutto il meccanismo della repressione penale un processo di dipendenza oggettiva dalle fonti confidenziali, che è tipico della polizia giudiziaria. Non sarebbero degli specialisti ad imporre gli orientamenti della repressione penale, quanto piuttosto i criminali, anche di calibro, che periodicamente si liberano delle scorie della propria organizzazione, o tentano di liberarsi delle organizzazioni concorrenti per guadagnarsi spazio, mossi spesso da interessi o strategie proprie, delle quali la polizia spesso diventa succube e strumento involontario.
Viene di fatto abolito la garanzia di oggettività data dalla visione generale dei fenomeni criminali su un territorio che ha il Procuratore della Repubblica, in quanto punto di confluenza e di concentrazione delle notizie provenienti dai vari di corpi di polizia e di valutazione della loro bontà, anche con riferimento al relativo ipotizzabile esito processuale.
Una seria attività di contrasto al crimine può essere solo il frutto di una visione generale dei fenomeni criminali che si verificano sul territorio al fine di elaborare vere e proprie strategie di contrasto del crimine, di individuare le centrali che alimentano i traffici e le attività illecite, che sono sempre nascoste dietro una cortina fumogena di mezze figure, di esecutori, spesso intercambiabili e facilmente sostituibili. Questo ruolo di alta competenza tecnica viene affidato dalla Costituzione al Procuratore della Repubblica, inteso come componente di un ordine autonomo ed indipendente rispetto al potere esecutivo.
E questa funzione attribuita al Procuratore della Repubblica sul territorio verrebbe di fatto svuotata, egli non potrebbe più svolgere il ruolo di network di competenze ed informazioni diverse necessarie per superare il limite della parcellizzazione della p.g.. Si creerebbe una dipendenza informativa del PM dalla pg, che impedirebbe il processo virtuoso di approfondimento e di analisi del tessuto criminoso di un determinato territorio. E questa visione complessiva e la possibilità di prendere conoscenza anche di reati minori sintomatici di fenomeni criminali più vasti e complessi consente solo al Procuratore della Repubblica la possibilità di valutare la necessità o meno di svolgere e approfondire indagini che si pongano in un rapporto di progressione criminosa inevitabile con altri fatti criminosi più gravi.
Ma in realtà si ha l’impressione che si voglia impedire che questa attività di analisi venga svolta, sia spogliando il PM del suo potere di iniziativa sia privandolo della possibilità di utilizzare strumenti come le intercettazioni che gli consentano di indagare più a fondo, facendo emergere notizie di reato a catena. Cosa che inevitabilmente avviene ogni volta che l’occhio dell’investigatore va ad esplorare a fondo l’interno di un ambiente criminale.
Non siamo un paese dove i fatti criminali costituiscono esplosioni individuali di aggressività o di antisocialità che possano essere trattati atomisticamente, anche se questi fenomeni, che rappresentano solo la marginalità dell’attività criminale, sembrano essere l’unico obiettivo del nuovo modello di processo penale disegnato dal governo.
Anche quando si considerino reati diversi da quelli associativi e propri della criminalità organizzata, questi sono spesso inseriti in un contesto di relazioni criminali che prevedono a monte ed a valle una rete di complicità in attività strumentali o di sfruttamento criminale, che costituiscono l’unico chiavistello disponibile per accedere alle informazioni sul funzionamento del sistema del crimine organizzato. Limitare la repressione penale solo ai fatti atomizzati ed impedire poi l’approfondimento di questi - con le previste limitazioni all’uso dello strumento delle intercettazioni e di qualsiasi altro mezzo di ricerca della prova azionato autonomamente dal PM - significa favorire le strutture di sfruttamento criminale che rappresentano una parte rilevante del sistema economico di questo paese. Ed anche un vasto bacino elettorale.
La lettura complessiva del disegno di legge governativo rende evidente che esso è oggettivamente destinato non già a proteggere i cittadini da una ingiusta indagine, quanto piuttosto a favorire quell’area criminale che mal sopporta anche la celebrazione di un giusto processo.
Viene capovolta la filosofia del sistema di difesa sociale, tant’è che i cittadini saranno esposti alla umiliazione di poter essere convocati ed accompagnati - se necessario anche con mezzi coercitivi - nell’ufficio del difensore dell’imputato per essere da lui interrogati. Senza nessuna garanzia per il testimone, non essendo prevista la presenza di un cancelliere o di un ufficiale di pg che verbalizzi la sua deposizione, e con una ben scarsa garanzia se è prevista la sola pena della multa (alternativa alla pena detentiva da 15 gg ad un anno) per i difensori che alterino il contenuto delle dichiarazioni rese o presentino al giudice indagini difensive falsificate, là dove la norma generale attualmente esistente (art.374 ter cp) prevede la pena da 1 a 5 anni.
Siamo in una fase di avvilimento progressivo della funzione stessa del processo penale e di svuotamento surrettizio dei caratteri democratici della Costituzione. Un processo di alterazione grave dello stato di diritto e dell’equilibrio tra i poteri dello stato, che peraltro è coerente con l’onnipotenza oramai riconosciuta ad un esecutivo senza più contrappesi.
Attribuire la selezione delle notizie di reato di fatto al potere esecutivo significa lasciare i cittadini esposti ad una discrezionalità politica sottratta a qualsiasi controllo giurisdizionale. Significa condizionare tutto il flusso dell’attività penale al modello monolitico del Capo dell’Esecutivo e del gruppo di potere che vi fa riferimento. Significa esporre tutti i cittadini a possibili ricatti da parte del sottogoverno. Significa chiudere ogni possibile spazio di agibilità per chi intenda affermare posizioni sgradite a chi governa. La dimostrazione è data dagli inqualificabili accertamenti eseguiti nei giorni scorsi nei confronti della Casa di Cura La Quiete di Udine che aveva accettato di rendere eseguibile la sentenza non gradita dal Governo relativa ad Eluana Englaro.
In un periodo di serenità certamente meno compromessa che in questa fase politica, al tempo della Bicamerale, nessuno si sognò di espropriare il PM della pienezza dell’esercizio dell’azione penale. Il testo di riforma costituzionale licenziato dalla Bicamerale prevedeva indicazioni di segno completamente diverso da quello attuale. Affermava:
127 L'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria.
132. Il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale e a tal fine avvia le indagini quando ha notizia di un reato.
Recitava la relazione di maggioranza redatta dall’on.le Boato:
“Si tratta di una tematica di grande complessità, nella quale si intersecano problematiche di equilibrio costituzionale, di garanzia dell'effettività dell'ordinamento giuridico, di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge…”. E ricordava: “che l'articolo 231 delle norme di attuazione del codice di procedura penale - anche aderendo a pronunzie della Corte Costituzionale - aveva abrogato tutte le disposizioni che prevedevano l'esercizio dell'azione penale da parte di organi diversi dal pubblico ministero….. Si è quindi imposta l'esigenza di individuare un meccanismo che, evitando mere petizioni di principio, consenta di porre rimedio a tale situazione, definendo un circuito suscettibile di coinvolgere in modo pieno ed efficace tutti i livelli di responsabilità istituzionale e di rendere effettiva la dichiarata obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale”
Aveva visto giusto il senatore Cossutta nella sua relazione di minoranza affermando:
“Ci sembra che corrisponda ad esigenze di garanzia affidare il delicato potere di iniziativa penale a magistrati esperti di indagini, ma anche formati nella cultura delle garanzie, nell'abitudine al contraddittorio, nell'ascolto delle ragioni di tutti e dei quali sia prevista la soggezione soltanto alla legge.” E aveva visto giusto individuando la pericolosa tendenza pur manifestatasi allora con l'esclusione della sottoposizione del PM «soltanto alla legge» che faceva già temere “il risorgere di pratiche gerarchiche, che possono ricondurci ai «porti delle nebbie» e all'epoca dell'insabbiamento di tanti procedimenti sulle stragi e la corruzione”.
Se vi fosse una reale volontà di assicurare un sistema di esercizio dell’azione penale libero, rispettoso del diritto ed autonomo rispetto al potere esecutivo, sarebbero state quanto meno previste garanzie per gli ufficiali di polizia giudiziaria che vengono chiamati ad esercitare un potere tanto delicato, sarebbe stato previsto uno specifico divieto di interferire con la loro attività, di dare direttive e anche solo di chiedere loro informazioni . Sarebbero state rafforzate le garanzie di indipendenza per chiunque esercita poteri di controllo, di indagine o ispettivi nell’ambito della pubblica amministrazione. Invece contestualmente si tenta di introdurre norme che ampliano i poteri di condizionamento da parte degli organi di governo, abolendo anche quei residui meccanismi di salvaguardia attualmente previsti, per quanto già ridotti e di scarsa efficacia. La riforma difatti prevede la eliminazione del nulla osta da parte del PM e del PG per i casi di trasferimento o promozione del personale e del dirigente della sezione di p.g., circostanza che li espone completamente ai dictat del potere esecutivo.
Lo spostamento in capo alla polizia giudiziaria del potere di individuare le notizie di reato nei confronti delle quali procedere avrebbe richiesto la creazione di un nuovo statuto per la polizia giudiziaria, la sua elevazione ad organo con le stesse garanzie dei magistrati e soprattutto il completo sganciamento di tutti i corpi di polizia dal vincolo gerarchico di carattere militare. Carabinieri e Guardia di Finanza oggi sono anche formalmente ancora sottoposti a questo vincolo che è assolutamente incompatibile con una attività di natura giurisdizionale. E la compatibilità dell’obbligo gerarchico di questi militari a riferire ai loro superiori viene ribadita, prevedendo che l’obbligo al segreto degli atti di indagine assicurato dal disegno di legge della Camera n.1415, abbia una applicazione limitata ai soli casi in cui la condotta criminosa venga realizzata mediante modalità o attività illecite (escludendo quindi i militari tenuti a rispettare il rapporto gerarchico).
Questo principio già desumibile da quanto si è detto è ribadito in una norma che prevede esplicitamente che non potrà più esser fatto alcun uso e svolta alcuna indagine in relazione alle notizie di un reato per le quali, sia pure a fronte di un fatto sintomatico, non siano state individuate circostanza concrete di violazione di legge penali. Significherà per il PM non potere più eseguire autopsie anche quando sussista qualche dubbio sulle cause della morte, non potere eseguire più accertamenti sulle cause di un fallimento, sui risultati di una verifica fiscale addomesticata, sulla denunzia di un privato che non sia stato in grado – come spesso accade - di esporre compiutamente i termini di un grave vicenda criminale di cui sia rimasto vittima. Significherà non potere eseguire perquisizioni alla ricerca di prove nei confronti di persone sospette dopo la commissione di un reato, se questo non sia stato previamente circostanziato dalla p.g. E le relative segnalazioni dovranno essere comunque distrutte.
Attività di approfondimento potranno essere svolte solo dalla polizia giudiziaria, che spesso non è organizzata a farlo o non ne ha la competenza tecnica, o si trova in una situazione di aver bisogno della copertura di un magistrato. Ma soprattutto la polizia giudiziaria sarà tenuta ad agire sulla base degli imput – insindacabili, insondabili e non verificabili - del potere esecutivo. E se non avrà agito, la relativa inattività non sarà sottoposta al vaglio di un giudice. Un capovolgimento completo in un sistema nel quale il GIP, a garanzia dell’applicazione della legge, potrebbe sempre poter rifiutare la richiesta di archiviazione di un PM e disporre che egli comunque proceda ad accertamenti.
C’era solo da razionalizzare il sistema sottraendolo per quanto possibile alla causalità ed inserendovi - al contrario di quanto intende fare il governo - i caratteri di autorevolezza della visione strategica del Procuratore della Repubblica, previamente definiti in via generale e specifica mediante la previsione di apposite procedure, formali, motivate e verificabili al momento del rinnovo dell’incarico.
Operare al di fuori di questo schema significa incidere non solo sull’art. 112 Cost., ma anche su altri principi fondamentali tali dalla Carta Costituzionale, non suscettibili di revisione, in quanto contenuti nella prima parte, quali il principio di eguaglianza dei cittadini e quello di legalità.
Nulla dice il disegno di legge sul potere di denuncia di reato che può essere esercitato da qualsiasi cittadino. Rimane oscuro se la modifica dell’art. 330 cpp comporterà anche una modifica dell’art. 333 cpp con il filtraggio delle denunzie dei privati da parte della polizia giudiziaria. E proprio i cittadini e le associazioni di cittadini potrebbero teoricamente integrare i settori di illegalità lasciati inesplorati dalle omissioni dell’esecutivo se non incombesse su di loro il ricatto continuo della incriminazione per calunnia.
Senza garanzie diverremo un paese ove non si può chiedere conto e dove neanche l’opinione pubblica attraverso la stampa potrà farlo. Dove viene abolita la responsabilità e viene legittimata la possibilità per il potere esecutivo di coprire le illegittimità proprie e della propria base elettorale di riferimento.
La limitazione proposta all’azione penale del PM adombra un messaggio che oserei definire mafioso, nel senso di propensione a coprire invece che a scoprire gli altarini di una classe dirigente che si nega alla trasparenza e tende a nascondere la propria spregiudicatezza.
Questa norma – i cui effetti saranno amplificati a dismisura dalla centralizzazione delle notizie di reato in unica banca dati - è mirata a stabilizzare un controllo pieno sulla società italiana, ad assicurarsi le mani libere e la benevolenza di vasti settori della criminalità economica. E non è senza significato che analoghe iniziative siano state attuate anche in materia fiscale con la centralizzazione dei controlli fiscali e la eliminazione dell’autonomia di accertamento da parte delle Agenzie territoriali delle Entrate.
Proprio in questi giorni anche il Presidente della Corte dei Conti ha manifestato le proprie perplessità in ordine alla nuova normativa introdotta dal ministro Tremonti che limita notevolmente la possibilità per gli uffici finanziari di acquisire gli indispensabili mezzi di prova per gli accertamenti fiscali. Ed ha ricordato la soppressione dell’appena reintrodotto obbligo di allegazione alla dichiarazione Iva degli elenchi clienti/fornitori, che, peraltro, in ragione dell’ormai generalizzata informatizzazione nella tenuta delle contabilità, non avrebbe provocato particolari complicazioni gestionali ed oneri aggiuntivi ai contribuenti, e l’abrogazione di altre norme in materia di limitazione dell’uso di contanti e di assegni, di tracciabilità dei pagamenti e di tenuta da parte dei professionisti di conti correnti dedicati.
Vi è dunque una strategia ad ampio raggio non a favore della libertà dei cittadini, ma della irresponsabilità dei cittadini, nei cui confronti non si vuole sia compiuto alcun accertamento, ma solo che ci si limiti a prendere atto della loro responsabilità penale o fiscale, quando questa sia tanto palese da non potere voltare lo sguardo dall’altra parte, quando chi ha commesso una violazione della legge non siano stato tanto bravo e furbo da cautelarsi.
Un potere invasivo sino all’inverosimile che ha sfiducia in tutte le articolazioni dello Stato ed una autostima smisurata solo in se stesso. Brutto segnale per un paese moderno, per una democrazia, per uno stato di diritto. Questo progetto di riforma invece rischia di cambiare l’assetto del paese introducendo non pochi caratteri tipici di un sistema autoritario.

domenica 15 febbraio 2009

Perché il processo penale è in crisi

16 febbraio 2009 - sintesi delle principali problematiche a cura di Claudio Nunziata
LA MANCANZA DI RIMEDI STRUTTURALI
La funzionalità del processo penale deve essere affrontata con soluzioni che riguardino l'intera struttura del processo. La riforma proposta dal governo non è in questo senso.
Alcune delle modifiche proposte possono essere utili, ma si tratta di palliativi con una ricaduta limitata, altre sono invece rivolte addirittura a gravare il processo di ulteriori oneri con inevitabile allungamento dei tempi (eliminazione della previsione di un vaglio di pertinenza del giudice sulle nuove prove dedotte dalla difesa dell'imputato).
Uno dei fattori che disperde l'impegno giudiziario è dato dalla possibilità per le difese di proporre continuamente nuove questioni e mutamenti di riti, circostanza che non consente al giudice di programmare il proprio lavoro e porta ad una dispersione enorme di energie giudiziarie. La stessa previsione di fissazione dell'agenda del Tribunale da parte del GUP - e prima di conoscere la consistenza del processo - costituisce un non senso che impedisce la programmazione del lavoro. Ma anche la previsione di una udienza preliminare strutturata come una ulteriore fase di giudizio si è in pratica tradotta in un quarto grado che prima del 1989 non esisteva. Ed il GUP come giudice unico del giudizio abbreviato si è rivelato una incoerenza sistematica dopo la introduzione del giudice unico.
L'APPELLO
I tempi del processo sono raddoppiati dopo le riforme del giudice unico e del giusto processo, un prezzo necessario che avrebbe però imposto qualche rinunzia. Non possiamo più permetterci un doppio esame nel merito dopo un processo tanto garantito in primo grado. Non dico l'eliminazione dell'appello, ma almeno la creazione di un filtro di ammissibilità, la previsione dell'impossibilità di appellare per motivi di quantificazione della pena, lasciando casomai la pienezza dell'appello solo per i processi di Corte di Assise e per le sentenze di condanna a pena superiore ai 3 anni, che ogni anno sono solo 7500 circa su 148.000 condanne alla reclusione da parte del giudice di primo grado.
Il 70% dei processi in appello si concludono con la conferma della responsabilità ( di cui il 25% con conferma della sentenza di primo grado ed il 45% con riduzione della pena). L'altro 30% dei processi di appello finiscono con un 10% di prescrizioni, un 8% di ndp per motivi processuali e solo un 12 % con riforma nel merito.
E' solo per salvaguardare questi circa 10.000 processi che altri 70.000 processi che arrivano ogni anno presso le Corti di appello rimangono congelati per un tempo che varia dai 3 ai 5 anni.

Ma se non vi fosse l'appello gli imputati non rimarrebbero senza garanzia, in quanto potrebbero sempre ricorrere in Cassazione per essere ammessi ad un secondo giudizio di merito o in qualsiasi tempo, anche dopo che la sentenza sia divenuta definitiva, far valere la propria innocenza mediante la produzione di una nuova prova risolutiva della loro innocenza, non esaminata nel corso del primo giudizio.

E' evidente che introducendo un filtro le Corti di Appello sarebbero sgravate di oltre i due terzi del proprio lavoro e circa 400 magistrati – solo con riferimento al penale - potrebbero essere utilizzati per rendere più celere la fase di primo grado dinanzi ai Tribunali.

La eliminazione dell'appello solo per il PM, invocata come soluzione da qualcuno, è una presa in giro, dal momento che gli appelli del PM sono meno del 5% e questa soluzione, a parte la palese incostituzionalità in un processo di parti, sarebbe assolutamente inefficace

LA DISTRIBUZIONE DELLE RISORSE SUL TERRITORIO
Un rimedio strutturale sarebbe la riduzione di un terzo degli uffici giudiziari mediante l'accorpamento della miriade di piccoli tribunali e di Corti di Appello disseminate sul territorio.

94 Tribunali su 165 hanno un bacino di utenza inferiore ai 250.000 abitanti, 10 Corti di appello su 29 inferiore al milione.

Poi vi sono le conseguenze della normativa che impedisce una equilibrata distribuzione dei magistrati nei vari uffici giudiziari, in conseguenza della separazione delle funzioni requirente e giudicante.

Oramai vi sono una trentina di Procure con meno della metà del loro organico. Alla procura per i minorenni di Caltanissetta e a quella di Reggio Calabria i posti scoperti hanno raggiunto il 100%, il che vuol dire che in questi uffici ormai c'é solo il procuratore capo e nessun sostituto. Il problema non riguarda solo il Sud, ma anche tanti uffici requirenti del Nord che hanno raggiunto vuoti di organico da allarme rosso. Se a Gela le scoperture sono pari all'80%, Pavia e Alba hanno raggiunto il 75%, come Enna e Patti; Gorizia è al 60%, appena al di sotto di Nicosia. Ragusa e Nuoro (67%).

La ragione del fenomeno è che sinora i posti vuoti nelle procure venivano coperti con l'invio di magistrati di prima nomina; una soluzione diventata impossibile da quando è stato introdotto il divieto di assegnare le toghe a inizio carriera a funzioni penali monocratiche, come quelle di pm o di giudice fuori da un organo collegiale
ARRETRATEZZA ORGANIZZATIVA
Vi sono poi problemi di arretratezza derivanti dalla mancata riorganizzazione dei servizi e delle normative in funzione delle nuove potenzialità informatiche che non sono stati affrontati e di incapacità di selezione di una classe dirigente all'altezza della situazione. Ma questo è un altro problema, da solo certamente non risolutivo, che non riguarda solo la Giustizia, ma tutto il paese.

sabato 14 febbraio 2009

Non sono possibili riforme della giustizia senza conoscere il contesto

3 novembre 2008 - a cura di Claudio Nunziata
La indicazione di possibili soluzioni ai problemi della amministrazione della giustizia presuppone una analisi corretta su quali siano le ragioni che hanno determinato l’accentuarsi delle sue principali problematiche. E, poiché i dati statistici posizionano la crisi all’indomani delle grandi riforme degli anni che vanno dal 1989 al 2000, è legittimo il dubbio che sia mancata una attenzione a mettere a punto tali riforme con opportuni adeguamenti organizzativi e normativi.
Gli operatori del settore sanno che alcuni interventi realizzati successivamente in modo disordinato e senza sinergie, anziché migliorare la loro portata, hanno creato un sistema caotico; sanno che la non appropriata organizzazione dei servizi ed il mancato supporto di una classe dirigente in grado di gestirli ha depauperato l’enorme potenziale di energie intellettuali investite nel settore; sanno che i continui attacchi alla magistratura, ai principi di legalità e di eguaglianza dei cittadini rischia di appannare definitivamente quelle energie e di trasformare in pura burocrazia l’istituzione giudiziaria. Sanno che la campagna contro giudici fannulloni è strumentale ed al massimo tocca una marginalità di molto inferiore a qualsiasi altro settore. Il modo fuorviante con cui vengono sbandierati dati statistici falsi o erroneamente elaborati dimostra solo il livello di approccio di un ceto politico inadeguato ed animato da prevalenti finalità di delegittimazione.
E’ paradossale che si pretenda di riformare ulteriormente la magistratura proprio nel momento in cui viene applicata una nuova normativa di grande impatto, quella sulla temporaneità degli uffici direttivi e semidirettivi, che ha una effettiva potenzialità riformatrice non ancora sperimentata.
Questa riforma in un arco limitato di tempo ha già dato luogo alla sostituzione di ben 257 titolari di uffici direttivi e 89 di uffici semidirettivi. Un ricambio di tale portata rappresenta un fattore innovativo che non ha precedenti nella storia della magistratura ed è destinato a dare carattere strutturale alla sperimentazione di nuovi modelli organizzativi. Una innovazione vera, che potrà avere delle ricadute significative ed estese, se saranno colti anche i risultati della riflessione già da tempo avviata motu proprio dalla magistratura su indicatori di funzionalità, analitici ed articolati in relazione ai più significativi mestieri del giudice, cui oggi è possibile far ricorso sulla base dei dati monitorati attraverso gli strumenti informatici.
E’, di conseguenza, altrettanto paradossale che da parte governativa vengano proposti modelli di valutazione della laboriosità primordiali (i cd. tornelli) rivolti a misurare la presenza in ufficio di magistrati e dipendenti della Giustizia, di portata ancora più arretrata delle statistiche tradizionali misurate senza tener conto delle diverse caratteristiche (tempi, ponderosità e complessità) delle più significative attività svolte.
Mentre tutto il mondo progredito per misurare le prestazioni intellettuali ricorre a strumenti di valutazione complessi ed articolati (resi fruibili dall’informatica) e valorizza attraverso gli strumenti telematici il lavoro a distanza, si pretende di assumere come unità di misura del lavoro dei magistrati la presenza in uffici disadorni, con scarse strutture e servizi, che non consentono neanche la concentrazione necessaria alla riflessione.
Peraltro, se ciò dovesse significare l’abbandono del ricorso alla utilizzazione dei dati raccolti nelle banche dati, comporterebbe il progressivo impoverimento della capacità delle strutture giudiziarie di tenere a regime la moltitudine di dati che vi sono conservati e di ottenere un ritorno di funzionalità dai rilevanti investimenti realizzati nel settore, peraltro già compromessi dalla riduzione dei necessari impegni economici.
La presunzione di ricavare dalla presenza in ufficio un indice di produttività appartiene ad una concezione da caserma che non attribuisce alcuna rilevanza alla qualità del lavoro, ai criteri di valutazione e verifica delle complessità e si fonda sull’inconfessabile retropensiero secondo il quale non ha senso trarre giovamento dalle energie intellettuali che i magistrati spendono lavorando ulteriormente presso le proprie abitazioni invece di dedicarsi agli affetti familiari. Un giorno il ministro Brunetta ed i suoi soci si sveglieranno e capiranno che l’Italia sopravvive proprio grazie a tante persone che – in tutti i settori - esprimono un elevato senso dello Stato.
Sembra quasi che gli attuali membri del Governo abbiano bisogno di far ricorso ai tornelli per non confrontarsi con le complessità, nella preoccupazione – che solo a loro appartiene - di rinvenire nei risultati di verifiche oggettive limiti alle arbitrarietà cui vorrebbero adeguare anche la magistratura. Brunetta come ministro dell’innovazione è in effetti l’altra faccia di Calderoli ministro della semplificazione: entrambi esprimono un semplicismo disarmante in cui si riassume una concezione medioevale della innovazione e della capacità di governo.
Già il Ministro Castelli si era prodigato - peraltro rivolgendosi a consulenti dimostratisi non in grado di realizzare l’obiettivo - per la creazione di un cd. “cruscotto” rivolto a misurare la laboriosità dei singoli magistrati come una sorta di “tornello dei numeri” analogo a quello suggerito dal Ministro Brunetta. Una iniziativa che non era mirata a produrre alcun miglioramento organizzativo, perché mirava a colpire singoli magistrati anziché intercettare le modalità organizzative sbagliate che producono inefficienza. Non teneva conto, cioè, del fatto che il lavoro dei singoli magistrati dipende dal carattere collegiale dell’unità di produzione costituita dalle sezioni. E non teneva conto che è compito proprio del Ministro della Giustizia assicurare il buon funzionamento dell’organizzazione giudiziaria e mettere a disposizione mezzi e personale adeguato.
Non teneva conto che i problemi dei tempi lunghi della giustizia hanno cause ben diverse e tutte riferibili a fattori strutturali di carattere normativo e organizzativo ascrivibili alla latitanza del Ministero e del legislatore che è chiamato a trovare soluzioni normative per rendere più efficaci le procedure processuali.
Ed invece il Ministro della Giustizia ha avviato la approvazione di un progetto di riforma del processo civile senza alcun confronto con la magistratura, con l'avvocatura e la dottrina, con "lavori preparatori" costituiti da poche righe e qualche stringato resoconto parlamentare, senza considerare la pratica offensiva della presentazione di rilevanti e delicati interventi riformatori all’interno di manovre finanziarie, quasi che vagonate di studi sul tema possano considerarsi una "sovrastruttura" del sistema economico.
La realtà della giustizia italiana non è immobile, è un grande cantiere con enormi disponibilità e formidabili potenzialità cui occorre dare sbocchi meditati. L’amministrazione della giustizia ha una tradizione gloriosa e la produttività complessiva dei magistrati è in continuo aumento. Dagli inizi degli anni 2000 il sistema statistico della Giustizia è andato raffinandosi con un monitoraggio analitico di tutte le attività giudiziarie, circostanza che consentirebbe valutazioni approfondite ai fini della identificazione dei problemi strutturali con conseguente possibilità di adeguamento dei modelli organizzativi di quelle realtà che evidenziano maggiori carenze.
Ma non è un caso che sul sito del Ministero della Giustizia la pubblicazione delle statistiche è ferma al 2005, nonostante esso disponga di dati statistici praticamente in tempo reale. Non è un caso che mancano elaborazioni sul funzionamento delle sezioni e si rifugge dalle indicazioni dei dati aggiornati che possano identificare le serie storiche in grado di intercettare le inefficienze di alcune dirigenze o i modelli virtuosi di altre. In tal modo non è sempre possibile verificare ed eventualmente contraddire i dati, che vengono sbandierati a fini strumentali in modo errato o fuorviante.
Lo spostamento dell’attenzione in misura pressoché prevalente su tematiche giudiziarie che nulla hanno a che vedere con le disfunzioni del Servizio Giustizia - il più macroscopico, a prescindere dal merito, quello relativo alla separazione delle carriere - rende fondato il sospetto di una volontà sottesa di disarticolare il sistema. La assenza di una visibile determinazione ad identificare le defaillance dirigenziali conferma tale sospetto. La inerzia di iniziative parlamentari rivolte alla semplificazione delle procedure e delle fasi processuali è destinata ad accentuare nel prossimo futuro la situazione con l’effetto inevitabile dello spostamento delle energie giudiziarie ancor di più verso quelle procedure meno garantite previste a carico dei soggetti più deboli, verso provvedimenti sommari, cautelari e d’urgenza che lasciano nei fatti privi anche di sostanziale tutela civile le parti meno abbienti che non si trovano nelle condizioni economiche di sopportare i tempi lunghi per ottenere giustizia. E questa situazione aprirà inevitabilmente la strada anche ad una democrazia di carattere autoritario nella quale non saranno più rinvenibili gli aspetti peculiari dello stato di diritto.
Il carattere prevalentemente militare che si tende ad attribuire alle operazioni di polizia, accentuato dall’affiancamento ad essa di militari e dalla esclusiva derivazione militare delle nuove assunzioni nella Polizia di Stato, gli esasperati proclami di membri del governo verso i problemi della sicurezza, la loro amplificazione oltre misura da parte dei media, la prevalenza degli arresti e dell’azione degli organi di polizia nei confronti di tossicodipendenti, fasce di emarginati ed extracomunitari, l’aggressione continua ed esasperata nei confronti delle iniziative dei PM , la accentuazione della loro subordinazione gerarchica e l’impossibilità di utilizzare per ben 5 anni nelle funzioni requirenti e monocratiche i giovani magistrati, accentuano la sensazione di oggettiva impossibilità di perseguire le pratiche illegali più radicate e che più profondamente inquinano il tessuto economico e sociale del paese, lasciando ampia libertà di azione a truffatori, falsificatori, bancarottieri, estorsori, riciclatori, usurai, evasori fiscali e ad una classe dirigente corrotta o irresponsabile, peraltro già tutti graziati per il passato dalla riduzione dei termini prescrizionali e dall’indulto. E pochi si rendono conto che gli effetti di questi benefici aumenteranno la già scarsa efficacia della giustizia penale, essendo destinati i relativi effetti, sfalsati nel tempo, a prodursi ancora per 5 o 6 anni, con il conseguente annullamento del suo effetto dissuasivo, fenomeno questo si, che rappresenta la vera causa produttiva della diffusa percezione di insicurezza.
Nel tentativo di bloccare questa degenerazione istituzionale occorre stimolare un processo di razionalizzazione, che passa necessariamente attraverso la semplificazione dei regolamenti delle cancellerie e lo svecchiamento di tutta le dirigenze giudiziarie, ponendo come condizione insuperabile la approfondita conoscenza delle nuove tecnologie informatiche e dei processi di riorganizzazione, in modo da avviare una efficace gestione di tutti i servizi amministrativi e di cancelleria. Occorre razionalizzare le circoscrizioni ed i distretti giudiziari stimolando l’accorpamento dei piccoli tribunali e delle piccole Corti di appello. Su 166 tribunali ve ne sono ben 77 con meno di 15 giudici in organico, solo 34 tribunali con più di 30 magistrati, 94 tribunali con una popolazione di riferimento inferiore a 250.000 abitanti, 10 Corti di Appello su 29 con meno di 20 magistrati e con una popolazione di riferimento inferiore al milione di abitanti.
Occorre inoltre da subito adottare le necessarie iniziative organizzative e normative affinché siano semplificate le procedute di notifica nel settore penale, e che determinati provvedimenti, quali la emissione di decreti penali, la pronunzia di sentenze di improcedibilità e di prescrizione possano essere automatizzati con procedure standardizzate, bypassando adempimenti che, tenuto conto anche della numerosità della casistica distraggono il personale dallo svolgimento del più impellente lavoro corrente.
Questo passaggio è urgente ed indispensabile perché allo stato la presenza massiccia di fascicoli di questa natura altera con un numero oscuro di non irrilevanti dimensioni i dati statistici e non consente di assumere le adeguate valutazioni organizzative e di produttività. A parità di misurazione della laboriosità vi sono uffici che trattano per la metà processi prescritti (e senza parte civile) ed altri che li accantonano concentrando le proprie energie nella esclusiva trattazione di processi che possono arrivare ad un completo esame del merito. Non valorizzare questa differenza dà luogo a confusione ed errori di valutazione.
A tali esigenze si potrebbe porre rimedio rendendo obbligatorio lo scorporo dei dati dei processi improcedibili e prevedendo la soluzione delle problematiche più impellenti con procedure standardizzate da realizzare:
a. con progetti finalizzati da affidare allo stesso personale in servizio, che dovrebbero trovare adeguate forme di finanziamento. Tale modalità sarebbe certamente meno costosa e più affidabile rispetto al ricorso a personale precario esterno. Inoltre sarebbe in grado di coinvolgere il personale, dare motivazione e contribuire alla efficace organizzazione delle risorse in campo.
b. con il reperimento da uffici pubblici del territorio di risorse umane per integrare le carenze degli organici giudiziari,
c. sollecitazione alle regioni e ad agli altri soggetti locali per la organizzazione di corsi di formazione ad hoc e del necessario supporto tecnico-organizzativo,
d. diffondendo la conoscenza delle buone pratiche e delle potenzialità dei progetti già realizzati in modo da socializzare e rendere più diffusamente efficaci le iniziative positive già sperimentate
Naturalmente nessun problema potrà trovare soluzione se si continuerà ad accrescere il numero dei reati (da ultimo le scritte sui muri per il quale appaiono sufficienti adeguate sanzioni amministrative) e non si procederà alla depenalizzazione di quelle condotte che non manifestano alcun carattere di pericolosità sociale quali quella prevista dall’art. 14 della legge sulla immigrazione clandestina che riempie i tribunali e le carceri con iniziative inutilmente persecutorie, posto che i clandestini che si dedicano ad attività criminose potranno essere perseguiti in base a ben altri titoli di reato.
Anche per il settore civile occorre maggiore determinazione, in particolare automatizzando i decreti ingiuntivi e facendo progredire con gli opportuni investimenti il progetto per il processo civile telematico, in modo da razionalizzare l’attività degli operatori ed accelerare i tempi di alcune operazioni, traducendo le interazioni fra le persone in scambi a distanza mediante strumenti elettronici. Ciò comporterà la completa riprogettazione delle mansioni e dei ruoli, delle diverse unità operative (abolizione dell'ufficio copie, dell'ufficio redazione sentenze, ecc.) ed un recupero di risorse umane da reinvestire in altri settori oggi fortemente trascurati.
La sensibilità verso questi obiettivi dovrebbe essere sollecitata dalla constatazione che lo sviluppo economico viene fortemente appesantito anche dai tempi lunghi della giustizia civile, oltre che dalla preoccupazione dei cittadini verso i problemi della sicurezza, sensibilmente acuiti dalle lungaggini dei processi penali. Ma i segnali che vengono da questo governo non sembrano affatto rivolti a rafforzare una funzione così delicata . Occorre verificare quanto si possa fare prescindendo da questo atteggiamento.

giovedì 2 ottobre 2008

I numeri del Rapporto Eurispes sulla Giustizia Penale

Valutazioni sul rapporto Eurispes sul processo penale
congresso delle Camere Penali tenutosi a Parma – settembre 2008




Le statistiche sono uno strumento indispensabile per analizzare il funzionamento di una struttura organizzata, ma se vengono selezionati gli indicatori sbagliati e/o se ne dà una lettura sbagliata è un disastro.

Purtroppo i cultori del diritto, quale sia il settore in cui sono impegnati, incontrano grandi difficoltà nel leggerle e generalmente si limitano alla lettura di quelle più elementari. Prima di affidare i quesiti agli statistici dovrebbero affidarsi ad esperti di organizzazione per la selezione degli indicatori giusti.

L'Eurispes nell'impostare questa ricerca ha seguito evidentemente le indicazioni del committente (Camere Penali), che non ha fornito ai ricercatori tutte le informazioni utili per una corretta ed utile acquisizione di dati.

1. PERCENTUALE DEI PROCESSI RINVIATI

E, difatti, uno degli obiettivi principali della ricerca è stato stabilire i motivi dei tanti rinvii del processi che vengono fissati al dibattimento. La ricerca ne ha tratto la conclusione che oltre il 76,1% di essi viene per vari motivi rinviato. Potrebbe essere un dato interessante se non fosse che la fissazione dei processi al dibattimento nel nostro codice non è disposta dal giudice del dibattimento che li deve celebrare, bensì dal PM o dal GUP che li fissano ad una data comunicata dal Tribunale, senza che questo possa organizzare i propri ruoli futuri valutando la complessità e la consistenza dei processi, di cui non conosce il contenuto. E il Tribunale, muovendosi alla cieca, fornisce le date delle udienze in modo da riempirle avendo presente l'ipotesi meno complessa e fissando un numero di processi maggiore di quelli che in realtà sarà in condizione di celebrare: tant'è che la prima udienza di fissazione nella quasi totalità dei tribunali viene definita "udienza di smistamento", cioè di rinvio per definizione, in modo da potersi rendere conto alla prima udienza fissata dei tempi effettivi preventivabili di trattazione e fissando una seconda udienza per la trattazione. Per giunta molti tribunali convocano per la prima udienza anche i testi, alimentando un generale scetticismo in ordine alla serietà della convocazione e la diffusa tendenza a non presentarsi rischiando di perdere una giornata a vuoto.

E dunque il 49,1% di rinvii per prosecuzione non rappresenta il sintomo di una situazione allarmante ma solo di un inadeguato meccanismo di citazione sul quale occorre intervenire per evitare di intasare l'udienza pubblica e di coinvolgere per questo momento di carattere esclusivamente organizzatorio tutta la struttura del processo pubblico con uno sproporzionato dispendio di impegno di una pluralità di soggetti (compreso l'intero collegio per un compito che può essere svolto dal solo presidente della sezione).

Ovviamente esso sarebbe reso molto più agevole se fossero definiti degli indicatori di complessità in grado di stabilire una prognosi di durata della trattazione in udienza. Ma né avvocati, giudici, Ministero della Giustizia e Parlamento attribuiscono generalmente ad esso una qualsiasi rilevanza, sprovveduti come sono di sensibilità verso la cultura della organizzazione.

Due indicatori (imputazioni e numero imputati) il Tribunale li potrebbe già utilizzare per una stima dei tempi di trattazione. Mancano tutte le altre variabili interne del processo come il numero dei testi e delle prove richieste dalle parti, compresa – in moltissimi casi - la determinazione degli imputati di optare per riti alternativi, circostanze che stravolge ogni previsione di stima dei tempi di trattazione. Il dato più paradossale è che le liste dei testimoni e la indicazione delle prove può essere presentata sino ad una settimana prima dell'udienza, cioè dopo che è stata già fissato il calendario delle udienze, il ché non consente di tenerne conto in sede di calcolo di durata prevedibile del processo e di calibratura dell'udienza .

Dunque allo stato delle cose il 49,1 % di rinvii per prosecuzione (cd. smistamento) è una prassi inevitabile ascrivibile solo in minima parte alla magistratura.

Come si evince dal prospetto che segue, più cause di rinvio rilevate dalla ricerca si riferiscono anche allo stesso processo, se le cause di rinvio indicate, sommate, danno il risultato del 120/100.

Se dunque - per quanto è comprensibile dal tenore un po' equivoco della sintesi della ricerca Eurispes diffusa dalle Camere Penali - i processi destinati naturalmente al rinvio (per prosecuzione) sono il 49,1% e sono compresi nella massa del 76,1% di quelli fissati in udienza, occorre calcolare il 49,1% sul 76,1% (=37,3%) e dedurre il 37,3% dal 76,1%. (=38,8%). Si perviene così alla conclusione che i processi rinviati per le altre restanti motivazioni (soggettive, processuali e per repliche o discussione) sono il 38,8% anziché il 76,1% dei processi fissati all'udienza e trattati con rito ordinario (escluse le direttissime che rappresentano una percentuale variabile tra il 5-10% rispetto ai processi complessivamente fissati in udienza).

Di conseguenza il numero dei processi trattati in dibattimento è il 61,2% di quelli fissati per la trattazione in udienza (cui vanno aggiunte le direttissime). Una parte di questi processi (il 30%) non viene rinviata e perviene a sentenza.

La ricerca afferma difatti che "i processi che ogni giorno si concludono in Italia con la pronunzia di una sentenza ammontano a meno del 30% del totale" (dei processi fissati). Se si tratta – come sembra - di un 30% rispetto al dato di riferimento comprensivo anche del 49,1% di processi fissati per lo "smistamento" ad altra udienza (che devono essere scorporati), in realtà si può affermare che perviene a sentenza mediamente una percentuale prossima al 60% dei processi fissati e non smistati ad altra udienza. E', dunque, all'interno del residuo 38,8% che operano le varie cause di rinvio (diverse dallo smistamento ad altra udienza). Rappresenta comunque una massa rilevante di spreco di energie giudiziarie prevalentemente determinata dai meccanismi processuali farraginosi, cui vanno aggiunti i rinvii determinati da mancanza di testimoni di cui al punto 2 che segue.

dati esposti nel rapporto Eurispes

NEL 76,1% DEI CASI SI FA LUOGO A RINVIO

Tali rinvii sono determinati dalle seguenti motivazioni (le relative percentuali sono riferite alla massa dei processi rinviati):

da MOTIVI SOGGETTIVI

1,0% rinvii per mutamento del giudice

2,6% rinvii per legittimo impedimento dell'imputato

5,0% rinvii dovuti al legittimo impedimento del difensore

12,4% rinvii per assenza del Giudice

1,5% rinvii per precarietà del Collegio

0,2% rinvii per assenza del PM titolare

6,8% rinvii per meri problemi tecnico-logistici [1]

29,5% totale parziale

da MOTIVI PROCESSUALI

6,6% rinvii per esigenze difensive

3,1% rinvii per carico del ruolo

9,4% rinvii per omessa o irregolare notifica all'imputato,

1,3% rinvii per omessa o irregolare notifica alla persona offesa

0,9% rinvii per omessa o irregolare notifica al difensore

4,2% rinvii per questioni processuali di competenza o incompatibilità[2]

1,7% rinvii per restituzione atti al PM

27,2% totale parziale

da MOTIVI ORGANIZZATIVI (eccessività di carico delle udienze)

2,2% rinvii per repliche

12,4% rinvii per discussione

49,1% rinvii per prosecuzione[3]

63,7 totale parziale

La somma totale delle cause di rinvio (di 29,5%+27,2%+63,7%) è di 120,4/100 anziché del 100% ! Probabilmente alcuni rinvii sono stati calcolati più volte con riferimento a diversi profili, anche se riferiti agli stessi processi.

2. LA ASSENZA DEI TESTIMONI

Una altra analisi eseguita dalla Eurispes riguarda il rinvio della istruttoria dibattimentale a processo incardinato, in relazione alla quale è stato rilevato il frequente rinvio per assenza dei testi

9.7 % rinvio per omessa citazione dei testi

44,3% rinvio per assenza dei testi [4]

54,0% totale rinvii per mancanza di testi

32,7% rinvii per prosecuzione della istruttoria

13,3% rinvii per integrazione della prova

100%

Si riferisce nel rapporto che tali percentuali riguardano solo il 39,2% delle udienze fissate per la trattazione istruttoria. Quanto incidano sul totale il rapporto non lo dice.

3. PERCENTUALE RITI ALTERNATIVI

Il dato Eurispes della percentuale di riti alternativi (9,4%) è contraddetto dai dati nazionali diffusi dal Ministero della Giustizia (disponibili sino al 2005) che indicano al 52% il totale dei riti alternativi e al 30% i casi di giudizio abbreviato dinanzi al GUP, sul totale dei processi trattati nel merito

Se i processi monitorati dall'Eurispes sono solo quelli celebrati con rito ordinario nella fase dibattimentale di primo grado presso i Tribunali, come si dice[5], se ne deve concludere che la indicazione di riti alternativi del 9,4% (5,4% con rito abbreviato, 4% con patteggiamento) si riferisce ai soli casi di applicazione della diminuente del rito abbreviato e di patteggiamento ottenuti in udienza dibattimentale, che è un dato di significato completamente diverso rispetto a quello che è stato esposto alla stampa (vedasi IL SOLE24ORE).

4. DURATA DI TRATTAZIONE

Riferisce il rapporto che la durata media della trattazione di un processo in udienza è :

18 minuti per i processi celebrati dinanzi al Giudice monocratico

52 minuti per quelli celebrati dinanzi al Collegio .

Questo dato è fuorviante perché alterato dall'inserimento nel calcolo anche dei processi rinviati (per smistamento ad altra udienza) senza essere stati minimamente trattati nel merito, nonché dai processi definiti per prescrizione (senza parte civile) o altra causa di improcedibilità, la cui presenza nei ruoli di udienza in alcuni tribunali spesso è altissima e serve solo per fare numero (di seguito è indicata nella misura del 15% dei processi definiti con sentenza).

5. ALTRI DATI DEL RAPPORTO EURISPES

Anche il rapporto tra processi collegiali e monocratici, indicato rispettivamente in 8% contro il 92% non corrisponde a quello dei dati ministeriali che è invece mediamente del 5% contro il 95% (con riferimento al periodo 2002/2005). La percentuale è difatti alterata dal fatto che non sono stati presi i n considerazioni i processi celebrati con rito direttissimo.

In caso di udienza conclusasi con rinvio ad altra udienza, i tempi del rinvio sono mediamente di 139 giorni per i processi svolti in aula con rito monocratico e di 117 giorni per quelli dibattuti in aula con rito collegiale.

I processi (senza distinzione di rito) con un solo imputato rappresentano il 77,5% del campione e quelli con più di un imputato il 22%.

Per il solo collegiale: nel 51,4% dei casi si è trattato di un unico imputato, nel 48,2% di più imputati

Per il solo monocratico: imputato unico 79,8%, più imputati 19,7%.

Il difensore fiduciario presta il consenso alla lettura degli atti in più della metà dei casi in cui esso è richiesto (55,7%), cui deve aggiungersi un ulteriore 10,2% di consensi alla utilizzazione di una parte degli atti. I difensori di ufficio, che – tra consenso totale (84,4%) e parziale (6,7%) – prestano il consenso alla lettura degli atti complessivamente in più di 9 casi su dieci. Ma non viene detto quale incidenza ha le richiesta di lettura di atti rispetto al totale dei processi trattati nel merito, posto che l'esperienza suggerisce che essa riguarda la quasi totalità dei processi al dibattimento con rito ordinario.

I casi di condanna in primo grado per l'imputato sono nel 60% dei casi, di assoluzione nel 21%, e di estinzione del reato nel restante 15% per cento dei casi[6].

6. PRESCRIZIONI

Ai dati fuorvianti del rapporto Eurispes si aggiungono quelli sulle prescrizioni pubblicati da Il Sole 24 Ore del 26 settembre 2008 con il titolo "Calano le prescrizioni, non pesa la ex Cirielli", a validazione delle dichiarazioni della deputata radicale Rita Bernardini rese al congresso delle Camere Penali: "Una situazione che fa giustizia delle polemiche sulle tattiche dilatorie dei difensori, Si tratta di prescrizioni maturate tutte sugli scaffali del PM per notizie di reato non infondate in una fase in cui l'attività difensiva è statisticamente pari a zero". Il quotidiano ha poi pubblicato una tabella intitolata "Il calo delle prescrizioni" che fa riferimento, invece, solo a quelle dichiarate dal GIP a seguito di richiesta del PM di decreto di archiviazione.

Un errore logico che dimostra la difficoltà di comprendere la complessità delle questioni giudiziarie:

a) tutte le autorità giudiziarie che abbiano in carico processi prescritti, oberate come sono di lavoro, applicando i criteri di priorità, evitano di trattare processi prescritti. Li accantonano per quanto possibile, sicché essi solo in minima parte danno luogo a provvedimenti di archiviazione o di improcedibilità;

b) i processi prescritti interessati dalla legge ex Cirielli sono in buona parte quelli già fissati al dibattimento, in quanto furono istruiti e mandati avanti dai PP.MM. perché si trattava di ipotesi che in base al precedente regime prescrizionale avrebbero potuto sostenere la durata media del processo. Quindi giacciono davanti al GUP o davanti al Tribunale del dibattimento, i quali ovviamente, in base alla nuova norma che lo consente, li mettono da parte per dare la precedenza ai processi che sono destinati ad avere un risultato processuale effettivo. E di conseguenza non sono rintracciabili nelle statistiche dei processi definiti per prescrizione.

Altra cosa sono dunque i processi prescrivibili, quelli già prescritti ma non ancora dichiarati e quelli che si andranno prescrivendo con il passare del tempo tenendo conto dei tempi delle varie fasi di giudizio a venire. Questi, contrariamente a quanto pensano l'on.le Bernardini e gli avvocati che l'applaudivano a Parma, sono destinati ad aumentare in misura esponenziale, non sono compresi nei numeri i processi definiti e sfuggono ad ogni statistica, essendo annegati nell'enorme numero dei processi pendenti.

Questi rilievi critici sul rapporto evidenziano una difficoltà a comprendere i caratteri di alcune complessità del processo penale, ma non levano alcuna rilevanza e significato alle conclusioni formulate dal presidente di Eurispes Gian Maria Fara: «Abbiamo pochi magistrati dove occorrerebbero e sovrabbondanza dove servono meno, sono scarse od obsolete le dotazioni tecniche e i mezzi a disposizione della giustizia di sovente sono arcaici rispetto all'evoluzione crescente delle tecnologie"

30.9.2008

Claudio Nunziata



[1] Indisponibilità dell'aula, indisponibilità del trascrittore, assenza dell'interprete di lingua straniera, mancanza del fascicolo del PM o del dibattimento

[2] 20,6% astensione/incompatibilità, 25% incompetenza, 47,2% riunione ad altro p.p.

[3] I rinvii alla prima udienza per questioni preliminari e/o sola ammissione delle prove ammontano al 27% del totale.

[4] In quasi il 40% dei casi il teste che, pur citato, non compare, appartiene alla Polizia giudiziaria

[5] Nella ricerca si precisa che la ricerca è stata limitata a 12.918 processi trattati con rito ordinario, presi a campione in 27 tribunali, con esclusione dei processi celebrati con rito direttissimo e gli incidenti di esecuzione.

[6] Le sentenze di proscioglimento per estinzione del reato, ben il 45,5% di esse è avvenuto per prescrizione del reato, il 32,8% per remissione di querela, mentre solo l'8,6% per oblazione